Negli ultimi anni, da grande estimatore della bollicina italica, devo dire che mi sono maggiormente interessato agli spumanti metodo classico trentini, ovvero a marchio Trentodoc (un brand che non ha avuto sin qui vita facile dal lato meramente commerciale e di marketing, nonostante l’indubbia qualità media dei prodotti che ad esso si rifanno), piuttosto che a quelli franciacortini. Interesse che mi ha portato a sviluppare una buona conoscenza rispetto alle aziende ed ai propri vini di riferimento. Non conoscevo, perché mai assaggiati prima, i vini dell’azienda Bossi Fedrigotti in quel di Rovereto, da qualche anno in partnership con la società Masi Agricola (cantina dell’anno per la guida del Gambero Rosso 2018). E’ sulla base di quest’assunto che, visto sullo scaffale di un’enoteca della riviera teramana il brut riserva 2012 del Conte Federico, non ho avuto esitazioni nel farlo mio in previsione di colmare presto la lacuna. Occasione presentatasi sabato scorso a cena, complici “du’ pescetti” ed alcuni amici. Beh!, che dire? Uno spumante Metodo Classico ben fatto, bolle persistenti (ma non fini), buona struttura, acidità a go go. Ecco, l’acidità: forse troppo accentuata. Dal colore giallo intenso con riflessi dorati; al naso si presenta fragrante, con aromi di crosta di pane uniti a crema, scorza d'arancia e spezie. In bocca, come dicevo poc’anzi, un’acidità sostenuta che ne fa un vino non adatto a tutti i palati. Uno spumante non docile, tanto che io lo vedo più adatto ad accompagnare egregiamente un intero pasto, piuttosto che come aperitivo, con piatti di pesce crudo e marinato, in particolare lo vedrei abbinato con del salmone affumicato. Ottimo anche con i fritti. Lo spumante Conte Federico Riserva è il risultato di un blend di Chardonnay (60%) e Pinot nero (40%), affinato sui lieviti minimo 36 mesi. La famiglia dei Conti Bossi Fedrigotti vive in Trentino da quasi 600 anni e da oltre 300 sono viticoltori. Nelle tante generazioni susseguitesi spicca la figura intraprendente del Conte Federico, padre degli attuali proprietari (tra cui Isabella, nota scrittrice), che cinquant’anni fa ha creato il Fojaneghe, primo taglio bordolese in Italia, ancora oggi icona del nobile casato, e che ha dato grande slancio alla produzione dei vini dell’azienda. Al suo nome dunque è dedicato lo spumante TrentoDoc Riserva Metodo Classico, prodotto che completa la gamma dei vini della cantina. In conclusione, per essere l’annata 2012 la prima riserva di questo spumante trentino, buona la prima ma mi sarei aspettato un vino un po’ più complesso, magari anche meno spigoloso, più morbido (anche più “ruffiano” se volete). Del resto, stando alle prerogative: prima annata in commercio della riserva, subito premiata con i Tre Bicchieri dal Gambero Rosso (guida 2018), non nascondo di aver avuto qualche aspettativa in più. Il prezzo? Pagato 18 euro, al netto di un piccolo sconticino da parte dell’enotecaro Tortoretano.
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Torno ad occuparmi di Pecorino, e questa volta salgo verso Cossignano per dirigermi verso l’azienda agricola Fiorano, di Paola ed Alessandra Massi e Paolo Beretta. Due i vini da uve pecorino in purezza prodotti: il Donna Orgilla e il Giulia Erminia, quest’ultimo vinificato in tonneau. Ma è del Donna Orgilla - annata 2016 - che vorrei parlare, il vino forse più conosciuto della cantina cossignanese, sicuramente il più premiato in questi anni. Mi capita spesso di assaggiare il Donna Orgilla, sia a casa che nel corso di iniziative enogastronomiche e culturali che si susseguono nel Piceno, dove Paola e Paolo non fanno mai mancare la propria presenza. Un vino senza fronzoli, emblema del vitigno pecorino così come lo conosciamo noi piceni: elegante nella sua veste color giallo paglierino, ma ben strutturato grazie anche all’elevata gradazione ed acidità. Matura in acciaio inox dopo una leggerissima pressatura ed una macerazione sulle bucce protratta per meno di 18 ore. Circa 14 mila le bottiglie prodotte, da un vigneto di 1,2 Ha. denominato Sacrì vecchio di 15 anni. L’azienda Fiorano, con annesso agriturismo e che produce anche un ottimo olio, ha fatto dell’ agricoltura biologica (tra le prime ad intraprendere la via della sostenibilità ambientale) una ragione di vita, tanto che i suoi 14 ettari di vigneti immersi nella stupenda campagna marchigiana che da un lato guarda al mare Adriatico e dall’altro i monti Sibillini, sono tutti inerbiti e concimati con il metodo naturale del sovescio. Una famiglia che ha da sempre creduto in un’agricoltura sostenibile che tuteli la qualità del cibo, del paesaggio e della vita. Da uvaggio 100% Pecorino, il Donna Orgilla 2016, che rientra nella Docg Offida Bianco, al naso si presenta fresco con note agrumate di pompelmo, pesca bianca e frutta tropicale. In bocca si sente eccome l’acidità, con il vino che ha una buona persistenza e dal finale molto lungo, sapido e minerale (lo so che facciamo un abuso di questi aggettivi, ma servono per rendere al meglio le sensazioni che si ricavano assaggiando questi vini). Con quali piatti abbinarlo? Io lo preferisco con uno spaghettone Verrigni alle vongole, ma è una buona “spalla” per tutti i piatti di pesce in genere e carni bianche. Un bel vino, tra i migliori della tipologia, per un costo abbordabile che si aggira intorno ai 12 euro in enoteca. L’azienda agricola Fiorano è tra i co-fondatori del Consorzio Terroir Marche, associazione di produttori biologici formata da uomini e donne che, oltre alla pratica rigorosa della viticoltura biologica, hanno in comune un approccio etico all’attività agricola, al centro della quale ci sono l’uomo e la natura, elementi sostanziali del concetto di Terroir.
Come si sta orientando il mercato di vendita del vino e dove è più conveniente comprare una buona bottiglia di vino oggigiorno? Una bella domanda, perché l’acquisto di vino oggi più che mai è molto diversificato rispetto al passato. Perché se l’enoteca classica rimane un porto sicuro per quanti cercano competenza e consigli per l’acquisto rispetto magari ad un’esigenza particolare, molte altre sono le possibilità offerte dal mercato in questi ultimi anni. Tralasciando la Gdo dei grandi centri commerciali dove l’acquisto di vino in bottiglia è riservato per lo più all’estemporaneità, alla necessità dell’ultimo momento o al richiamo dell’offerta vantaggiosa, a scapito però di un’omologazione rispetto alle etichette in commercio, oggi l’appassionato di vino predilige sempre più orientarsi verso le enoteche on line (occhio però ai prezzi: se vini di fascia media sono competitivi, per quelli di fascia alta decisamente no) o addirittura acquistando direttamente dal produttore, sia mediante la rete che recandosi in cantina, magari abbinandoci un viaggio turistico. Ora se è vero che on line si può trovare di tutto, è anche vero che l’e-commerce, per ciò che attiene il vino, non è per tutti. Nel senso che per acquistare on line su Tannico, piuttosto che su Call me wine o Extrawine o altri, bisogna essere un po’ al dentro della materia, ovvero conoscere il vino, le annate ed i relativi prezzi che vanno per la maggiore, altrimenti il rischio di andare incontro a qualche delusione c’è. Ma è indubbio che la concorrenza mai come in questo caso va incontro al consumatore che può scegliere chi ha il prezzo migliore, così come può allargare le sue possibilità di scelta riguardo ad etichette altrimenti non facilmente reperibili. Un fenomeno, quello della proliferazione di enoteche on line, che ha fatto sì che anche le enoteche tradizionali hanno dovuto adeguarsi rispetto ai prezzi, spesso costrette a fare sconti sui propri prodotti pur di mantenersi il cliente. C’è da dire, inoltre, che bisogna tener conto, nel caso delle enoteche on line (ma anche delle cantine che vendono direttamente), dei costi di spedizione che possono vanificare il risparmio nel caso di acquisto di poche bottiglie. Per avere la consegna gratis a casa infatti, bisogna fare acquisti oltre una certa soglia di spesa (generalmente sopra ai 90 o ai 120 euro per una spedizione). Non è un caso inoltre, che queste enoteche on line stiano ultimamente aprendo linee di vendita dedicate specificatamente al business, ovvero ad operatori del settore come ristoranti ed enoteche, che hanno così la possibilità di limitare problemi di immobilizzo di capitale, se è vero come è vero che non hanno più bisogno di “fare cantina” acquistando cartoni di vino che, per forza di cose, oltre a limitarne il numero di etichette, recano in sé sempre il rischio di rimanere invenduti. Rimane ora da vedere se questo porterà però ad un abbassamento generalizzato dei prezzi in carta riguardo a bottiglie di vino che, in taluni ristoranti, troviamo con prezzo addirittura triplicato rispetto all’origine. Infine, sull’acquisto di una bottiglia di vino incide non poco il costo dell’Iva, pari al 22%. Una tassa un po’ troppo alta, a mio avviso, per un prodotto di consumo quotidiano considerato merce di lusso. Come se bevessimo tutti i giorni bottiglie di Krug Clos du Mesnil o di Chateau Margaux, Chateau Lafite, Chateau Latour. Non so voi, ma io per assaggiare un nostro buon Barolo o Supertuscan debbo aspettare il Vinitaly…
Ci sono cooperative vitivinicole sociali, in Trentino, che nonostante facciano grandi quando non grandissimi numeri (il colosso della Cavit, per fare un esempio, di cui mi occuperò più avanti, annovera oltre 1.500 soci conferitori e produce circa 70 milioni di bottiglie annue), producono bottiglie di qualità. In taluni casi di eccellente qualità. Prendiamo la Cantina Rotaliana ed il suo TrentoDoc Redor Riserva 2009. La cantina sociale di Mezzolombardo, anch’essa all’interno dell’arcipelago Cavit, vanta ben 80 anni di storia e produce annualmente oltre un milione di bottiglie tra bianchi, rossi (forse il segmento dove esprime maggiore qualità con il suo Teroldego) e TrentoDoc. Due le etichette di spumante metodo classico TrentoDoc: il Redor brut ed il Redor brut Riserva. Quest’ultimo, composto per il 70% da chardonnay e 30% di pinot nero, riposa ben 80 mesi sui lieviti e combina freschezza e mineralità a note dolci, gusti setosi e lieve tostatura. Attualmente in commercio è l’annata 2009: una bollicina che nel bicchiere sfoggia un colore giallo paglierino con riflessi dorati, un perlage abbondante, vivace e generoso nelle dimensioni delle bolle, che però non si tramuta in un eccesso di spuma, anzi, essa è quasi assente (così come è bassa la carbonica) e permette ancor meglio di ammirare la brillantezza di questo nettare. Al palato inizia quasi sbarazzino, con una buona cremosità, dopodiché emerge tutto il suo corpo guadagnato con fatica in tanti anni in cui è stato ad affinare. Finale in crescendo, con un senso di leggerezza condito da un buon retrogusto, dove il fruttato è bilanciato da una nota acidula e fresca. Abbinamento direi a tutto pasto, ad iniziare dal pesce (tutto) senza dimenticare i crostacei. Ottimo anche come aperitivo. Un vino, uno spumante metodo classico che riesce a mettere in second’ordine tanti champagne. Il prezzo? Sui 25-27 euro in enoteca. Non pochi ma sicuramente ben spesi.
Un Pecorino che profuma di montagna. L’Onirocep, anagramma della parola pecorino di quando quest’appellativo, non essendo ancora il vino una Doc, non poteva comparire in etichetta, è il fiore all’occhiello (insieme al Ribalta da uve Bordò) della cantina Pantaleone, piccola azienda in quel di Colonnata Alta a dieci minuti d’auto da Ascoli Piceno. Posta a 450 metri sul livello del mare proprio ai piedi del monte dell’Ascensione, l’azienda è condotta dalle sorelle Federica e Francesca Pantaloni con l’enologo Giuseppe Infriccioli (marito di Francesca), ed è salita alla ribalta della scena vitivinicola picena da diversi anni con i suoi vini biologici. Una cantina giovane (è nata nel 2005) ma già di successo, pur essendo una piccola realtà produttiva con i suoi 13 ettari di vigneti collocati a sud-est e coltivati a Pecorino, Passerina, Montepulciano, Sangiovese e Bordò, quest’ultima varietà da uve Grenache (o Cannonau) anticamente coltivate in alcune zone del Piceno e solo recentemente riscoperte per farne un vino d’eccezione (il Ribalta nel caso dell’azienda Pantaleone). Il Pecorino Onirocep degustato l’ultima volta alcuni giorni fa (annata 2016), è un vino dal colore giallo paglierino e dagli ampi riflessi verdolini tipici del vitigno. Al naso si percepiscono note agrumate, di erbe di campo e con richiami floreali, profumi arricchiti anche dalla forte escursione termica che si registra in questi vigneti di alta collina posti ad anfiteatro. In bocca è morbido e fresco, con una notevole dote di acidità. L’Onirocep 2016 - fermentazione in acciaio anticipata da criomacerazione (processo immediatamente successivo alla pigiatura dell’uva e antecedente la fermentazione: il mosto e le bucce restano a contatto per 12-24 ore, raffreddate ad una temperatura di 5-8° C per far sì che possano essere estratti gli aromi primari dell’uva presenti proprio nella parte interna della buccia. In questo modo si ottengono vini con profumi più intensi, fruttati e definiti) - ha una gradazione di 14°. Lo si può abbinare a piatti di pesce, risotti e pasta con verdure, oltre all’immancabile fritto misto all’ascolana. Un vino dove si può sentire l’estrema attenzione per “equilibrio, ambiente, territorio”, trinomio chiave da cui si evince il rispetto con cui la cantina Pantaleone lavora la terra e i suoi frutti. Interessante potersi concedere una visita in cantina, con la famiglia Pantaloni che ha fatto dell’ospitalità il proprio valore aggiunto e con le sorelle Federica e Francesca sempre molto disponibili nel far assaggiare i propri vini e prodighe di informazioni sulla cantina e sul territorio. L’azienda Pantaleone fa parte, fin dalla sua nascita, del Consorzio Terroir Marche, associazione di vignaioli che si prefigge la promozione e la valorizzazione della vitivinicoltura biologica/biodinamica marchigiana, la difesa del territorio e dei beni comuni, la diffusione di culture e pratiche per una economia sostenibile e solidale. L’Onirocep si porta a casa dall’enoteca con 10-12 euro.
Montepulciano mon amour. Se poi è quello abruzzese e non marchigiano e piceno va bene uguale, anzi. Degustazione di due magnum, entrambe annata 2011, di Montepulciano Colle Trà cantina Guido Strappelli di Torano Nuovo, e del Lumen (quest’ultimo con un saldo del 30% di cabernet sauvignon) di Dino Illuminati in quel di Controguerra. Due bottiglie che a mio avviso sono tra le massime espressioni abruzzesi declinate in rosso, di due produttori che da sempre tengono alto il nome del vino abruzzese, ed in particolare del Montepulciano (da menzionare, a questo punto, anche le due etichette di punta di ognuno: il “Celibe” di Strappelli ed il “Pieluni” di Illuminati, due riserve di Montepulciano d’Abruzzo Doc Colline Teramane). Iniziamo dal Colle Trà. Vino dal colore rosso rubino e dall’intenso profumo di marasca. Al gusto si presenta pieno, con i tannini ben amalgamati ma che hanno ancora tanto da dire. Da vigneti con 30 anni di età che si estendono in località Villa Torri nel comune di Torano Nuovo (TE), il Colle Trà è la seconda etichetta di cantina Strappelli, ma ha poco o nulla da invidiare alla prima, con in più un prezzo maggiormente vantaggioso (sui 14/15 euro la bottiglia da 0,75 lt). Uve prodotte da coltivazione biologica, con una resa media per ettaro di 70 hl. Vendemmia manuale con selezione dei grappoli. Fermentazione e macerazione per 13-14 giorni a temperatura controllata con affinamento in botti di rovere di Slavonia da 15 hl per un periodo di 12-18 mesi e successivo affinamento in bottiglia. Ottimo con arrosti di carne, brasati, cacciagione e salumi. Io l’ho assaggiato con arrosticini di castrato e devo dire che questo vino non ha deluso le aspettative, mostrando tutta la stoffa del montepulciano. Per essere un vino da 15,5 gradi alcolici, devo dire che si è fatto bere tranquillamente. Forse troppo…
Secondo vino della serata, tra l’altro degustato con analogo cibo, il Lumen del Cavalier Dino Illuminati da Controguerra, patria del vitigno montepulciano. Un blend di montepulciano (70%) e cabernet sauvignon (30%), sempre in magnum e analoga annata: 2011. Un vino che ci ha messo più tempo ad aprirsi (forse perché anche leggermente più freddo del Colle Trà), ma che ha subito mostrato i garretti con i suoi tannini ancora giovani: un rosso rubino intenso sfavillante di riflessi violacei nel bicchiere, al naso si presenta con intriganti profumi speziati di liquirizia e tabacco; dal gusto armonico ed elegante e dall’invidiabile struttura, il sapore del vino, una volta deglutito il sorso, rimane per diversi minuti in bocca, saturandola. Le uve – si legge nella brochure aziendale - dopo una attenta e scrupolosa selezione, sono tra le ultime ad essere vendemmiate (inizio ottobre per il cabernet-sauvignon e 8-12 ottobre per il Montepulciano d'Abruzzo). Dopo la diraspatura ed una pigiatura soffice, le uve vengono vinificate separatamente in vinificatori di acciaio inox e fermentano ad una temperatura di 28-30°C, per un periodo di 15 giorni circa. Terminata la fermentazione malolattica, i vini ottenuti vengono riuniti e travasati in barriques da 225 litri di diverse varietà di rovere dove rimangono circa 18 mesi, al termine dei quali si procede all'imbottigliamento. Successivamente il vino subisce un affinamento in bottiglia di 12-14 mesi nelle grotte della cantina prima di essere immesso sul mercato. Prodotto solo nelle migliori annate, con un prezzo che arriva a sfiorare i 25 euro (bottiglia da 0,75 lt.) Importante la gradazione alcolica: 14,5°. Due vini diversi, ma dal comune denominatore: quel Montepulciano che fino agli anni ’90 del secolo scorso era conosciuto per essere un vino dalle grandi rese coltivato a tendone-pergola, ingente quantità del quale prendeva la via del nord Italia per essere “tagliato” con i vini del territorio grazie alla sua potente struttura, ai suoi sviluppati tannini e alta alcolicità. Fortunatamente non è più così, o comunque il fenomeno si è notevolmente ridotto tanto che sono diverse oggi le cantine abruzzesi che producono vini d’eccezione da uve Montepulciano, una su tutte quella di Emidio Pepe cui si deve l’indubbio merito di aver “sdoganato” e fatto conoscere il Montepulciano nel mondo. C’è un vino rosso in Italia che sta vivendo la sua seconda primavera di successo grazie all’elevata qualità media (mi scuso per l’ossimoro, ma non mi vengono in mente altri termini per rendere al meglio l’idea) della produzione, che vanta un territorio d’eccezione atto alla coltivazione della vite all’ombra del vulcano, quel monte Vulture che gode di un ottimo clima e di un terroir favoloso . Mi riferisco all’Aglianico del Vulture, per il quale un tempo era stato coniato l’appellativo di Barolo del sud. E c’è una cantina, non la sola, che storicamente da oltre un secolo rappresenta al meglio questo nobile vitigno: Armando Martino, di Rionero in Vulture. Di questa cantina ho recentemente bevuto una bottiglia di Pretoriano Docg Riserva 2011, che mi ha fatto vivere momenti di grande affiato. Di colore rubino scuro, la maturazione avviene in acciaio per 24 mesi a cui segue un lungo affinamento in bottiglia. Al naso prevalgono note olfattive che richiamano il goudron, tipiche nei rossi di gran corpo e struttura. In bocca sensazioni di frutta rossa in particolare mora e marasca. Un vino pieno di ricchezza estrattiva ben supportata da tannini morbidi, freschezza e piacevolezza di beva (la bottiglia è finita in un baleno...) Conclude con un finale lungo, piacevolissimo. Io l’ho abbinato con un tagliere di formaggi stagionati ma, a ragion veduta, oltre che con carni rosse alla griglia e selvaggina, lo vedrei bene anche bevuto da solo accompagnato da quattro chiacchiere tra amici magari davanti allo scoppiettìo di un camino acceso. Ciò per dire che mi è piaciuto proprio tanto (ma io sono un amante dell’aglianico), tra l’altro acquistato in cantina ad un prezzo più che onesto: 12 euro. Ed è proprio l’eccellente rapporto qualità/prezzo, il valore aggiunto della cantina lucana condotta da Armando Martino (nipote dell’Armando Martino che tra fine ‘800 ed inizio ‘900 creò la cantina) affiancato dalla figlia Carolin, presidente del Consorzio Aglianico del Vulture.
Il verdicchio è unanimemente riconosciuto come uno dei migliori vini bianchi italiani. Tante le etichette di altrettante cantine ubicate nelle due zone a Doc in regione: Matelica e Jesi. Oggi mi soffermo su un verdicchio di Jesi a mio avviso ancora poco conosciuto dalle nostre parti, nonostante la cantina sia in auge dal 1981 in quel di Staffolo. Mi riferisco alla Fattoria Coroncino della Famiglia Canestrari - Lucio, Fiorella e figli -, che l’hanno tirata su a piccoli passi e con non pochi sacrifici ed il cui motto è “ ‘ndo arivo metto n’segno ”, a tradire la propria origine romana. Diverse le etichette prodotte, frutto degli oltre 10 ettari vitati condotti in regime di agricoltura biologica e biodinamica. Il vino che ho assaggiato recentemente è Il Gaiospino 2015 (18-20 euro il costo in enoteca), etichetta di punta della cantina. Un verdicchio classico superiore da uve provenienti dal vigneto di Spescia ubicato nel comune di Cupramontana, vino che come detto rappresenta al meglio l’azienda ed è quello che, nel corso degli anni, ha avuto maggiori riconoscimenti. Vino importante per struttura e ricchezza di aromi, da uve raccolte nel pieno della loro maturità, che fa registrare 14,5 gradi alcolici. Prodotto in circa 10 mila bottiglie annue, con il 30% circa di mosto che fermenta in tonneau di rovere e con il vino che rimane per 16-18 mesi sui propri lieviti fino all’imbottigliamento, Il Gaiopsino si presenta nella sua veste migliore: colore giallo paglierino nella sua luminosità, al naso esprime un bouquet di pesca, frutta tropicale e frutta secca, mentre in bocca oltre all’accentuata mineralità (il vigneto di Spescia gode di un suolo marnoso), mostra equilibrio e morbidezza. Un vino dall’importante struttura però non stucchevole grazie alle note di sapidità e freschezza. Ottimo in generale con la cucina di pesce del nostro mare Adriatico, meglio ancora se abbinato a ricette dal sapore deciso come zuppe o baccalà. “In realtà, parlare del vitigno è riduttivo – le parole di Lucio Canestrari, riportate in una bella intervista rilasciata a quel grande fotografo nonché raffinato conoscitore di vini che corrisponde al nome di Mauro Fermariello, intervista che potete gustarvi sul suo blog Winestories (www.winestories.it), nato per raccontare storie di vignaioli -, il vitigno si esprime su di un terreno e con un microclima specifici. I miei due vini, Gaiospino e Coroncino, sono fatti entrambi con uve Verdicchio, addirittura partendo dagli stessi innesti. Ma sono profondamente diversi, perché diversi sono i terreni d’origine. Il Coroncino viene da un terreno argilloso, mentre il Gaiospino viene da una marna calcarea. Questo anche perché sono vent’anni che non concimiamo, per cui il terreno sa proprio di terreno, esprime quel che ha, e non prende il gusto di sostanze aggiuntive”. Ed ancora: “Non abbiamo mai avuto obiettivi particolari, mete da raggiungere. Abbiamo sempre fatto quello che ritenevamo opportuno, quello che ci sembrava giusto. Non siamo biologici perché dobbiamo presentarci in qualche modo, anche perché sulla bottiglia non è che compaia. Lo siamo e basta, semplicemente perché riteniamo sia giusto, perché lavorare in questa maniera mi consente di entrare in vigna quando voglio, di mangiare l’uva senza avvelenarmi. Un bicchiere di vino ti racconta un anno di vita di una vigna, con quell’uomo, quell’agricoltore”. Parole che mettono il sigillo su di una filosofia di vita prima ancora che di produttore di vino. Bellissime infine le etichette, ognuna diversa per tipologia di vino. Chapeau!
A parità di prezzo, qualità diversa. La comparazione ha come soggetti da una parte lo champagne, in questo caso etichette "entry level" ovvero prodotti base (che, per lo champagne, possono prevedere assemblaggi di vini anche di vecchie annate), e dall'altra bollicine da Metodo Classico italiane (siano esse Franciacorta, Trentodoc, Oltrepo' Pavese o Alta Langa che dir si voglia), che al prezzo degli champagne base di cui prima, ovvero sui 30/35 euro, ci compri delle buone riserve, anche pas dose'. Ecco allora che la comparazione tra prodotti diversi ma dallo stesso prezzo ha ragion d'essere, se vogliamo produrci in una discussione che ha come tema trainante la qualità del vino in rapporto al prezzo. Perché se è indubbio che lo champagne ha sempre il suo fascino ed una qualità mediamente buona anche se parliamo di etichette tirate in centinaia di migliaia di bottiglie, va da sè che con gli stessi soldi puoi liberare i tuoi desideri acquistando bottiglie italiane con una qualità media di molto superiore alle bollicine francesi. A patto, ovvio, di conoscere bene i prodotti che si acquistano. Detto in soldoni, se in un'ipotetica enoteca dovessi trovarmi di fronte a due scaffali dove in quello di destra ci sono bottiglie di Pommery, G.H.Mumm, Piper o quanti altri, ed in quello di sinistra bottiglie di Haderburg pas dose', Barone Pizzini Naturae, Arici Colline della Stella Zero Nero, Trentodoc Letrari Riserva e tantissime altre etichette Metodo Classico italiano, beh!, la mia scelta non potrebbe che ricadere su una bollicina made in Italy.
Passate le feste, è tempo di primi bilanci su cosa di buono si è bevuto a Natale, ma ancor di più (e meglio) a Capodanno.
E’ risaputo che il periodo natalizio è quello più gettonato per stappare qualche buona “bollicina”, anche se mai come in questi ultimi tempi gli spumanti hanno avuto un incremento di vendite durante tutto l’anno. Poi sulla qualità di quello che si stappa e si beve ci si potrebbe dilungare molto. Basti pensare all’incremento, che sembra inarrestabile, di vendita del prosecco. Io però, per ciò che concerne le bollicine, mi soffermerò principalmente sugli spumanti Metodo Classico (anche perché non ho assaggiato altre tipologie), oltre a qualche vino “fermo” o tappo raso che dir si voglia, di cui mi occuperò più avanti. Inizio dal top, ovvero da un Dom Perignon 2009, champagne che nell’immaginario collettivo è considerato un vino cult e tra i migliori al mondo. Devo dire che ogni volta che mi sono trovato, insieme ad amici, a stappare una bottiglia di champagne di qualche maison di grido ed ovviamente dal costo elevato, ne è (quasi) sempre seguita una certa delusione di fondo rispetto alla qualità immaginata. Non è stato così questa volta. Usuale il blend quasi paritario tra chardonnay 51% e pinot nero 49%, dal colore giallo paglierino con perlage fine e persistente (si dice così, no?), al naso esprime note floreali con rimandi tostati, lasciando un finale agrumato. All’assaggio questo 2009, ad opera del miglior chef de cave del mondo, Richard Geoffroy, si presenta profondo e materico, complesso ma equilibrato, lasciando trasparire tutta la sua eleganza. Insomma un gran bel vino, se non fosse che per portarselo a casa non bastano 120 euro. Forse un po’ troppi per una bottiglia di vino da 0,75 lt. Secondo champagne degustato il 31 dicembre, un Perrier Jouet Grand Brut, etichetta base della maison, da uve pinot noir 40%, pinot meunier 40%, chardonnay 20%. Delicato al naso, l’assaggio è però troppo orientato verso una spiccata acidità di fondo che ne fa un vino particolare, non adatto a tutti i palati. Sui 35 euro in enoteca. E passiamo alle bolle italiane, un gran bel bere: dalla cantina Ferrari (di gran lunga la migliore di tutto lo stivale), con i suoi TrentoDoc Perlè Nero (intorno ai 50 euro il costo) – oramai un must per quanti prediligono il pinot nero spumantizzato in purezza – in questo caso annata 2009, e Perlé Zero 2010, una cuvèe composta da uve 100% chardonnay delle annate 2006-2008-2009, “tirato” a dosaggio zero ovvero senza zuccheri aggiunti, che riposa ben 72 mesi sui lieviti. Un vino che rappresenta l’ennesimo capolavoro di Ferrari. Il prezzo? Alto, ovvero come il Perlé Nero. Altro Dosage Zero (e altro grande vino), il Ca’ del Bosco Vintage Collection 2013, un blend di chardonnay (60%), pinot nero (17%) e pinot bianco (23%) che sosta 48 mesi sui lieviti. Profumo di pane appena sfornato, buona struttura, corposo ma di una eleganza estrema, molto fine. Una garanzia di qualità. Altro giro altra corsa: il Bagnadore 2009 di Barone Pizzini. Un non dosato riserva, con le uve provenienti da un’unica vigna (in Francia si direbbe un “cru”) di oltre vent’anni. Vinificazione in barrique ed affinato sui lieviti per ben 60 mesi, Il Bagnadore sprigiona eleganti profumi di frutta, agrumi e crosta di pane, che ben si integrano con un gusto secco, sapido e minerale, ampio e succoso. Ed ho finito con gli aggettivi. 35 euro ben spesi. Ultimo vino assaggiato il 31 dicembre, un pas dosé della cantina altoatesina Haderburg, un millesimato di grande eleganza, vivacità e ricchezza aromatica. Dopo una maturazione sui lieviti di 36 mesi esprime note di frutta, agrumi, burro e pane tostato. Il sorso è strutturato, rinfrescante e piacevolmente sapido, ricco di aromi fruttati. Anche questo, ça va sans dire, un gran bel vino che ti porti a casa dall’enoteca a nemmeno 30 euro (alla faccia di tanti champagne base dall’identico costo). L’augurio che mi faccio è di proseguire, in questo 2018 appena agli inizi, con degustazioni qualitativamente elevate anche nel corso dell’anno e non per forza di cose spendendo cifre così alte. Ci posso riuscire, ci riuscirò. Fidatevi. |
PIERO LUCIANIGiornalista pubblicista appassionato di vini, in particolare bollicine. Amo bere bene in compagnia possibilmente al cospetto di una buona tavola. Archivi
Maggio 2023
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